E son 20 anni…

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Venti anni che Pantani, il Pantadattilo come lo definì con insuperabile maestria il grande Mura, non è più con noi.

Da venti anni San Valentino è il giorno che dedico a lui.

Avevo scritto già il pezzo di oggi, nulla di strano, è normale organizzare le pubblicazioni.

L’ho cancellato.

Troppo emotivo, troppo legato ai miei ricordi e al ricordo di Marco: a lui non sarebbe piaciuto.

Tutti noi abbiamo amato, io ho amato, il Pantani sui pedali; io però ho amato ancor più il Pantani sceso dalla bici.

Uno di noi.

Allora oggi non voglio ricordarlo per le sue imprese, per le sue vittorie, per le sue salite strepitose.

Voglio ricordare l’uomo che non seppe battere se stesso.

In bici si trasformava, come avviene solo coi grandi campioni. Non è un caso che tanti innamorati di Pantani lo siano anche di Coppi.

Forse perché ambedue scomparsi prematuramente, sono nel cuore di noi appassionati.

Uomini d’acciaio una volta in sella, timidi, persino fragili scesi dal loro cavallo a pedali.

Se sono dette tante su Marco, ancora oggi si specula sulle cause della morte, si tirano fuori fantasiose teorie. 

No, nemmeno questo gli sarebbe piaciuto.

A lui capace di stravincere dopo un salto di catena non piacerebbe essere definito una vittima.

In un certo senso lo fu, vittima. Di un sistema che con lo sport, con i suoi valori e la sua etica nulla aveva in comune.

Dicono che i ciclisti, quelli veri mica noi semplici pedalatori della domenica, siano quelli che non mollano mai.

Pantani era di un altro pianeta in bici, eppure lui nella vita ogni tanto mollava. Proprio come noi.

Qualcuno lo ha definito arrogante, confondendo l’orgoglio di chi sa di essere il più forte con la superbia del mediocre che deve spararle grosse per farsi ascoltare.

No, Pantani non aveva bisogno di urlare, bastava la sua presenza perché chiunque ne riconoscesse il valore.

Ma dopo il traguardo era una persona diversa, schivo, poco amante della ribalta, costretto per contratto. Non altezzoso, lui sapeva che lì c’er ala sua gente, quelli che avevano affrontato la levataccia, la giornata a bordo strada solo per vederlo passare.

E si stupiva, si chiedeva perché lo amassero, lo amassimo tanto.

Fino a non sentirsi all’altezza di tanto affetto.

Aveva i suoi demoni, ha provato a farci i conti, a volte li ha battuti a volte no.

Fino a quel San Valentino di venti anni fa, quando ha perso contro l’unico avversario che nessuno può battere.

Sono fiero di averti visto correre.

Ti ringrazio di essere vissuto.

Buone pedalate, soprattutto a te Marco.

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